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ARTE E RICERCA ARTISTICA
DOPO LA PANDEMIA
Scomodo intervista Numero Cromatico

31 maggio 2020
Domande di Luca Giordani
Rispondono Dionigi Mattia Gagliardi e Manuel Focareta

Da sinistra Dionigi Mattia Gagliardi, Ma

​Scomodo: Come vi ho anticipato la sezione cultura di Scomodo questo mese ha deciso di dedicare un “grosso” approfondimento su come la pandemia abbia colpito i lavoratori del mondo della cultura, nello specifico ai “liberi professionisti”. Già questa denominazione solleva una miriade di problematiche, ma ci torneremo subito.  L’articolo sarà diviso in 5 sezioni: un’introduzione, in cui cerchiamo di fare il punto sulla situazione generale, tra DPCM, leggi varie e gestione ordinaria di quella strana entità che è il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo; e poi quattro sezioni, ognuna dedicata a uno specifico ramo della produzione culturale: arti visive, teatro, cinema e musica. Visto che il tema è sconfinato abbiamo pensato di rivolgerci a tante diverse professionalità che da anni vivono e combattono per sopravvivere in questo sistema per metterne in luce l’inadeguatezza e le perversioni che a uno sguardo esterno possono passare inosservate. Fine del lungo preambolo. Insieme agli altri ragazzi abbiamo stilato una lista di domande per cercare di uniformare le testimonianze, la prima serve un po’ a rompere il ghiaccio: quando avete capito/realizzato di essere “lavoratori della cultura” (per alcuni ad esempio è stato quando hanno ricevuto il primo pagamento, altri ancora non ci si sentono) e per lo Stato invece che tipo di lavoratori siete? Per capirci, come pagate le tasse?

Numero Cromatico:
DIONIGI MATTIA GAGLIARDI 
Le domande che ci poni sono interessanti ed aprono a questioni che per noi sono centrali da sempre, sulle quali spesso ci troviamo in contrapposizione rispetto all’opinione comune. Il tema della “professione” dell’artista, del “lavoro” dell’artista, nelle ultime settimane è diventato l’argomento principale nelle discussioni tra addetti ai lavori. In questo periodo, in cui siamo stati colpiti dalle ripercussioni economiche e sociali della pandemia, molti chiedono a gran voce diritti per i lavoratori dell’arte, compresi gli artisti.
Per noi l’arte non è un lavoro e l’artista non è tale perché “produce” oggetti che dichiara artistici.
L’artista, a nostro avviso, inventa nuove strade per l’umanità che sintetizza anche attraverso le opere. Queste però sono prototipi estetici germinali che in futuro potranno essere riconosciuti come modelli culturali. Se prendiamo quanto ti ho detto come valido, nel contesto attuale possiamo immaginare una biforcazione in cui, da una parte ci sono tutti quelli che si pongono come produttori di artefatti, dall’altra invece ci sono quelli (pochissimi) che studiano nuove possibilità estetiche. I primi certamente si pongono la questione del lavoro, al contrario dei secondi che non potranno mai immaginare il loro intelletto rivoluzionario come una professione. 
Inoltre, per essere un professionista, devi produrre: numeri, oggetti, nel caso degli artisti opere, mostre, premi, residenze. Mentre il pensiero rivoluzionario può anche essere un’unica idea e questa può essere espressa anche attraverso un’unica opera, perchè quella, da sola, riuscirà ad influire sulla società e sul mondo per centinaia di anni.
Provo a farti un esempio pratico. Prendiamo in considerazione due figure plausibili nel mondo dell’arte come lo conosciamo oggi: da una parte lo scultore chiamato a produrre monumenti per le piazze, ce ne sono stati tanti nel ‘900 (pensa anche alla legge del 2% ancora in vigore); dall’altra parte uno scrittore come James Joyce.
Il primo è un “artista” sovvenzionato dallo stato e dalle comunità locali perché considerato un “maestro”, capace di scolpire opere così complicate e meritevoli da essere esposte in spazi urbani. Come sai le nostre piazze sono piene di monumenti del genere, eppure quanti di noi ricordano il nome di questi scultori, quanti di questi “maestri” hanno avuto un ruolo determinante nel cambiamento dei valori culturali della nostra epoca? Il secondo, Joyce, sostanzialmente con un’unica opera, l’Ulisse, inventa una nuova lingua. Joyce attraverso una sola opera diventa uno dei padri della letteratura del ‘900. A questo punto ti chiedo: qual è la differenza tra questi prolifici scultori senza nome e “il nome” della letteratura del ‘900? In un’ottica legata alla professionalità e al guadagno, quanto avrebbe dovuto guadagnare James Joyce, con una sola opera, rispetto ai “maestri”  in proporzione rispetto a questi produttori di sculture per le piazze?
L’arte non riguarda il lavoro, bensì il contrario, la libertà e di conseguenza l’immaginazione del mondo che verrà. Converrai con me che guardandole da questa prospettiva sono questioni difficilmente comprensibili per la società di oggi e non inquadrabili in un contesto retributivo. Creare futuro significa aprire un “vuoto”, una voragine, nel “pieno” della contemporaneità: il pieno di dati di fatto, di conoscenze sicure, di regole date. La contemporaneità è conformista e deve giustamente rispondere ad un insieme di regole comprensibili da immettere nel mercato. L’ambiente artistico, in questo senso, segue delle regole date, per far sì che determinati artefatti vengano riconosciuti come “arte” e che quindi possano essere normati da un sistema di regole specifiche, che in questo momento decide il mercato. 
Questo non significa che i James Joyce contemporanei, coloro che stanno immaginando nuove lingue, debbano essere completamente fuori dalla realtà che li circonda, voglio dire che sono necessari parametri nuovi ed un linguaggio rigoroso ma non conformista. Questo succede nell’ambito scientifico, in cui esiste un linguaggio condiviso da una élite e attraverso cui si inventa il futuro. Cosa fa la scienza, se non cercare nuove possibilità per il mondo? In ambito artistico non esiste un linguaggio del genere. Il sistema di regole oggi riconosciuto in quest’ambito risponde a parametri banali come la libertà completa e totale di fare ciò che si vuole, lo scandalo, la genialità creativa, la commerciabilità ed altri stereotipi che è inutile elencare. In questa condizione, con queste premesse, allora è tutto impossibile da confutare: l’arte vive dell'assolutezza di chi dichiara di farla o di chi ha una qualche autorità per definirla tale, o di chi la gestisce sul mercato.
Per mercato non intendo solo la compravendita ma anche tutto il sistema di costruzione della carriera dell’artista. Ne consegue che chiunque si sente in diritto di auto-dichiararsi artista o di creare un artista. 
Quindi poi si arriva al tema successivo: con Numero Cromatico abbiamo provato a costruire una realtà che si possa autosostenere cercando di utilizzare, rivoluzionare e scardinare alcune delle regole del sistema di riferimento. Perché ovviamente non si può pensare che l’artista non abbia delle necessità di sopravvivenza. 
Abbiamo costituito una non-profit provando ad attingere ad economie diverse: in primo luogo a quelle delle nostre famiglie; in secondo luogo, organizzando attività pubbliche a cui hanno partecipato a vario titolo centinaia di persone, come ad esempio anche voi di Scomodo, in cambio di un contributo; In terzo luogo, essendo noi un soggetto ibrido, abbiamo provato ad attingere a fondi scientifici ma anche a fondi per la cultura, a livello comunale, regionale e nazionale. Il problema di questi ultimi è che l’arte viene confusa con l’intrattenimento. Spesso si tratta di finanziamenti erogati in base al numero di persone raggiunte, alla quantità di partnership, alle ricadute sul territorio, questioni che riguardano i numeri e non la ricerca culturale.
In questo ibrido tra arte e scienza abbiamo cercato di costruire uno spazio di libertà che non ha partita IVA personale, certo abbiamo quella di Numero Cromatico ma questa serve per finanziare l’affitto e le spese. Il singolo membro cresce al suo interno e sviluppa la propria identità artistica e personale e, nel tempo, l’idea è che questo possa anche essere finanziato. Negli anni abbiamo creato una realtà che si autosostiene, il prossimo passo è il sostentamento per le persone che la vivono e la mandano avanti, ma cercando di emanciparsi in maniera sempre più decisa dal “lavoro”.

 MANUEL FOCARETA 
Il tema del lavoro, nello specifico il rapporto tra vita e lavoro, è una questione delicata su cui noi ci interroghiamo da sempre. Numero Cromatico è un’entità che non può essere ridotta a semplici attività lavorative o professionali. Certo, ognuno di noi ha acquisito delle conoscenze legate ad una “figura professionale” ma questo solo perché viviamo, purtroppo, in una società fondata sul lavoro, come recita anche la nostra costituzione. Si tratta di un tema cardine per noi, perché dal nostro punto di vista l’uomo dovrebbe affrancarsi sempre più da questa attività, non aspirare a diventare un lavoratore.
Il problema non è mettere a regime gli artisti o chi fa ricerca e capire come “assisterli”, bensì capire come “investire” su di loro. L’assistenzialismo esiste già, ma non lo vogliamo. 
Desideriamo creare un mondo in cui la ricerca artistica abbia un ruolo fondamentale e venga quindi innaffiata e coltivata, così da creare un ambiente prolifico dal punto di vista culturale e non un mondo abbrutito dall’assistenza economica sporadica.
Numero Cromatico da questo punto di vista è un avamposto: per la nostra idea di futuro, la ricerca artistica è una questione seria. Sia ben chiaro: non vogliamo dire che sia l’unica strada possibile, ma secondo noi è una delle migliori possibilità. E affermando ciò, stiamo incredibilmente andando in contrapposizione col Paese in cui viviamo, dove questa alternativa non è contemplata dalle istituzioni artistiche. Non vogliamo creare una classe di “operai” della ricerca, ma immaginare un “uomo nuovo”. Ci siamo lanciati in questa avventura dando vita ad un progetto che portiamo avanti da dieci anni, a dimostrazione che crediamo sia la strada più giusta da intraprendere. Per questo ne parliamo con questa intensità.
Scomodo: Mi lego a un paio di parole chiave che hai detto, “assistenza”, “operaio”. Voi vi siete uniti spinti da una comunione di intenti e di visione, l'associazione è stata quindi una conseguenza inevitabile. Tuttavia, come dici sempre tu la vostra è una strada, non l’unica: altri “professionisti” ci hanno parlato di sindacati, associazioni di settore etc. alcuni preesistenti, ma ignorati finora, altri nati in questo periodo proprio perché ritenuti inadeguati i precedenti.   

Numero Cromatico:

DMG: Nei giorni della pandemia sono sorti diversi gruppi auto-organizzati, composti dai cosiddetti lavoratori dell’arte. In questo insieme si sono riconosciuti artisti, curatori, assistenti di galleria,
uffici stampa, allestitori e tutti quelli che, a vario titolo, fanno qualcosa nell’ambito dell’arte.
Si tratta di iniziative da tenere d’occhio, ma ci tengo a precisare che c’è una sostanziale differenza
tra artisti e maestranze dell’arte, tra arte e tutto quello che è stato costruito intorno. 
L’energia impiegata da questi gruppi informali per dare dignità alle categorie lavorative che ruotano intorno al mondo dell’arte probabilmente è anche giusto, ma non c’entra niente con l’arte. 
Gli artisti non sono maestranze, non sono professionisti, anche se nel sistema dell’arte contemporanea, in realtà, l’artista uno degli ingranaggi della catena. Chiunque sia creativo, furbo
e simpatico è candidabile a fare l’artista e in quest’ottica è certamente un lavoratore al pari dell’assistente di galleria; egli può portare il proprio curriculum e il proprio portfolio al gallerista
di turno e se risponde ai criteri di utilità di quest’ultimo inizierà la sua gavetta per diventare artista.
A quel punto l’artista potrà appendere il proprio disegno alla parete, l’assistente di galleria potrà scrivere il proprio testo critico da pubblicare online e fotocopiare per l’opening della mostra: ingranaggi del sistema. 
Tutto questo però non riguarda l’arte ma il sistema dell’arte contemporanea.
Nel sistema dell’arte contemporanea quanti artisti ci sono oggi? Centinaia di migliaia, se non di più! Quanti di questi avranno un ruolo significativo, alla stregua di Piero della Francesca, Filippo Tommaso Marinetti, Marcel Duchamp, Lucio Fontana, per citarne alcuni? Quanti di questi influiranno sul futuro dell’umanità? 
L’arte in tutte le epoche ha generato un cambiamento culturale, ha precorso i tempi. Quanti artisti, delle centinaia di migliaia presenti oggi, ricorderemo tra cento anni? Pochissimi! Magari di più rispetto al passato, ma comunque pochi. Così come le opere d’arte, saranno poche, anche in un mondo iperconnesso come il nostro. 
Quando ho fondato Numero Cromatico perché avevo percepito la mancanza di un dibattito sull’arte contemporanea che facesse emergere queste contraddizioni, per colmare questo vuoto e proporre una nuova teoria dell’arte. 
Le opere sono venute dopo, e ne facciamo anche poche! A causa di questo in molti ancora non ci considerano degli artisti, perché scriviamo e non abbiamo studi sporchi e pieni di quadri. Noi non ci poniamo il problema della produzione e passiamo mesi, anni, a ragionare anche su un unico problema teorico. 
Scomodo: Bene, ora che siamo decisamente “caldi” entriamo più nello specifico. Qual è stato l’impatto di questa pandemia sull’associazione Numero Cromatico?

Numero Cromatico:
DMG: Come sai negli ultimi tempi ci siamo trovati economicamente in difficoltà, perché gran parte del nostro sostentamento deriva dalle attività pubbliche: mostre, workshop, masterclass, performance e altro, che ovviamente ora non è possibile fare. 
Qualche settimana fa abbiamo scritto una lettera aperta, parlando della situazione che stiamo vivendo, cercando di far emergere che realtà come la nostra non sono né sostenute né contemplate dal decreto “Cura Italia”. 
È anche vero che il mondo delle realtà culturali è molto confuso, perché se tre persone si mettono insieme e formano un’associazione sul valore culturale della N’duja di Spilinga, per lo stato hanno lo stesso valore di chi si occupa di neuroscienze. 
Si dovrebbero istituire dei parametri, dei metri di giudizio e un linguaggio comune per istituire delle categorie e valutarle correttamente, proprio come si fa in ambito scientifico.
Naturalmente le istituzioni dell’arte non hanno ritenuto opportuno rispondere, o anche semplicemente inviarci degli attestati di stima o almeno di apprezzamento per quanto abbiamo svolto in quasi dieci anni di attività.
Il ministro Franceschini credo non sappia neanche chi siamo. Poi ci sono delle anomalie ancora più grandi, come La Quadriennale di Roma che in questi anni non ha mai condotto una ricerca seria sulle realtà artistiche presenti nella Capitale. È mai possibile che ad un’istituzione come la Quadriennale non interessi studiare e valorizzare le eccellenze del proprio territorio e si rivolga invece a realtà nazionali o addirittura estere? O ancora peggio si limiti a fare delle “call for artists”? 
I grandi curatori e galleristi del passato ci hanno insegnato che è necessario andare negli studi degli artisti, prendendosi la responsabilità delle proprie scelte. Questa finta democrazia della “call” andrebbe molto rivista.

Scomodo: Riguardo al “metodo” e al linguaggio, che poi è il motivo per cui ci siamo conosciuti, lo sapete abbiamo punti di vista affini, però intrinseco e sotteso c’è il problema del merito e dei criteri di riconoscimento, e quindi assegnazione di fondi. Le valutazioni, soprattutto istituzionali, si basano su un giudizio di scienza positivista e liberista che va a valutare efficienza e produttività, insomma il sistema capitalista. Quindi si torna a parlare di dati, di statistiche, di numeri, come dicevate voi prima di “numeri dell’intrattenimento”. Nelle ricerche che ho fatto in questi giorni mi sono imbattuto ad esempio in un ciclo di conversazioni on-line promosse da Mi Riconosci? in cui si parlava di “sistema culturale nazionale” e Ugo Mattei parlava, come possibile alternativa, di “finanziamenti a pioggia”, in modo tale che qualsiasi organo vada a giudicare non crei quella rottura di cui parlavate anche voi prima con l’immaginare un futuro che è, ovviamente, diverso dal reiterare, o bourdianamente “riprodurre”, un establishment.

Numero Cromatico:
MF: Ci sono troppe variabili in questa domanda. Il primo punto da chiarire è che noi non intendiamo il metodo scientifico in relazione al capitalismo o alla produzione ottimizzata. Noi lo vediamo come un linguaggio condiviso e comprensibile, quindi molto democratico. Gli artisti di oggi, come afferma il linguista americano Samuel Jay Keyser, utilizzano dei “formati privati”, cioè intimisti e incomprensibili. Noi invece creiamo un linguaggio attraverso dei metodi che sono confutabili, ripetibili, comprensibili e accessibili. Quello che noi pensiamo è scritto, il nostro approccio non è produttivistico ma è di elaborazione, comprensione, “sfida”.

DMG: Capisco quello che dici, e questo problema esiste anche in ambito scientifico quando si tratta di chi valuta e finanzia la ricerca. Quindi il problema non sta nel metodo scientifico ma nel mercato della scienza. 
Poi ci sono una serie di altri errori, in primo luogo quello di pensare alla scienza come positivista, perché ha smesso di esserlo all’inizio dell’ ‘800. Il metodo scientifico è tutt’altro che positivista, infatti in primo luogo non esistono assoluti, come invece accade nel sistema dell’arte, ed ogni legge sussiste fino a prova contraria. In secondo luogo, non è possibile ridurre la straordinarietà di un linguaggio ad una criticuccia sterile. Anche la democrazia, pur essendo un concetto straordinario, è stata distrutta dal mercato e dalla politica. Ritorniamo ad uno dei problemi di partenza: il mercato. Purtroppo il linguaggio internazionale non
è l’italiano, l’inglese, il metodo scientifico o l’ispirazione, ma il mercato. Tutto può essere ricondotto
a questo, il sistema costitutivo delle nostre vite. 
Bisogna stare attenti a non correre il rischio di incartarsi nei ragionamenti, come molti intellettuali,
o presunti tali, fanno. Sono un po’ stufo di sentire e leggere critiche filosofeggianti sullo stato di cose attuali, senza mai proporre delle soluzioni concrete.
Io credo che il metodo scientifico sia attualmente il linguaggio migliore, anche per l’arte. Si tratta
di un sistema di regole precise che ha favorito un confronto e che ha fatto fare enormi passi in avanti alla conoscenza. Noi, con Numero Cromatico, lo promuoviamo e lo adottiamo. Non voglio affermare che sia l’unico linguaggio, ma attualmente si presta ad essere il più adatto e il più democratico.
La scienza, grazie al metodo scientifico, ha dimostrato quello che la storia della filosofia e dell’estetica hanno cercato di dimostrare per secoli. La storia del pensiero, seppure importante,
è stata pura speculazione, mentre la scienza ci ha fornito le prove. 
Anche per questo abbiamo pensato alle neuroscienze potessero come possibilità per l’arte, dobbiamo confrontarci con quello che il mondo ci offre e le neuroscienze sono attualmente
il migliore strumento per comprendere i meccanismi di funzionamento dell’essere umano e se non le teniamo in considerazione rischiamo di restare nel mondo della speculazione.

Scomodo: Va bene lasciamo il mondo della speculazione e rituffiamoci in quello della prassi: in questo momento di crisi, quale è stato il vostro approccio al problema della “sopravvivenza”, cosa ha fatto Numero Cromatico per sopravvivere? Ho visto ad esempio che avete in corso una campagna di crowdfunding.

Numero Cromatico:
MF: Partiamo dal presupposto che come associazione, ad oggi, non abbiamo ancora ricevuto alcun tipo
di finanziamento pubblico. La campagna di crowdfunding è stata una necessità per sostenere le elevate spese di gestione di uno spazio come il nostro, ma quello che noi abbiamo richiesto è una cifra irrisoria. Siamo contenti di come sta andando, ma ancora non basta. Stiamo aspettando delle risposte dai proprietari dello spazio, dallo Stato e dall’esito finale di questo crowdfunding.
Ma, a prescindere da tutto, noi continuiamo e continueremo. Troveremo un modo per sopravvivere.

DMG: I membri di Numero Cromatico conducono delle vite direi “monacali”. Non abbiamo “tempo libero” perché il nostro tempo è libero, non abbiamo la necessità dello svago perché ciò che abbiamo scelto di fare non è un lavoro ma la nostra vita. Quindi abbiamo continuato a far gran parte delle cose che facevamo prima. Inoltre non abbiamo mai sentito la necessità di produrre ed “esserci” a tutti i costi. Forse, anche per questo, non abbiamo sentito la necessità di produrre iniziative sul web.
Durante il lockdown ci siamo fermati. Abbiamo solamente pubblicato una campagna di raccolta fondi perché abbiamo intuito sin da subito che il periodo di stop delle attività di aggregazione sociale,
per realtà come la nostra, sarebbe stato lungo. Abbiamo dichiarato onestamente e apertamente
come stavano le cose.
Le spese per mandare avanti la nostra realtà sono alte e il problema non è risolvibile con la sola raccolta fondi: se in questi mesi di stop non crei niente, poi dopo cosa ti resta? Noi stiamo facendo molto di più rispetto a prima, perché stiamo cercando possibilità di finanziamento, creando nuovi progetti di ricerca e pensando nuove forme di socialità, sperando in un 2021 senza virus.
La nostra attività si è trasformata principalmente in progettualità e ricerca, progetti che stiamo coltivando per farli sbocciare nel momento in cui le cose andranno meglio. 
Riguardo alle spese, se ci renderemo conto che non potrà esserci una continuità di introiti andremo via da lì, troveremo un’altra soluzione. Noi siamo una realtà corretta che rispetta le spese e le scadenze, ma non possiamo neanche vivere per pagare gli affitti. Se ce ne dovessimo andare troveremo altri spazi di libertà: non siamo stanziali. L’importante per noi è vivere in una situazione di tranquillità e serenità che ci permetta di pensare, ragionare, progettare. Speriamo inoltre che lo Stato attivi delle opportune detrazioni, sia per noi che per i proprietari. Se penso al fatto che la nostra sopravvivenza si basa sul riuscire a pagare l’affitto, mi viene la pelle d’oca. A Roma ci sono tanti spazi liberi pubblici e privati, che difficoltà ci sarebbe nel darli in concessione gratuita a chi veramente genera attività culturali e di ricerca. Quanta socialità e quanta economia potrebbe generare tutto questo? Ha fatto bene il direttore del MAMbo a Bologna: con ciò che aveva e con i limiti di spazio, ha istituito un bando per offrire degli studi agli artisti bolognesi. Mentre noi a Roma abbiamo musei e fondazioni che neanche sanno cosa succede in città, né tantomeno se ne interessano. 

 Scomodo: Nell’ultimo decennio ci si è molto interrogati sul ripensamento del modello di fruizione dell’arte da passivo ad attivo e sul coinvolgimento come chiave per sviluppare un tessuto che facesse crescere il territorio. Per quanto ancora acerbo il discorso stava iniziando a maturare, ma, a fronte del Coronavirus, un approccio del genere diventa insostenibile e si sta quindi iniziando a pensare a una nuova “svolta”. Da osservatore esterno mi sembra che Numero Cromatico con le sue attività e la sua programmazione sposasse questo modello, come vivete quindi questo cambio di rotta? Sintetizzo lanciando “una bomba”: come state re-immaginando la funzione sociale dell’arte del nuovo millennio?

Numero Cromatico:

MF: Noi ci siamo fermati perché era necessario capire cosa fare e come farlo, dal punto di vista pratico ma anche per le eventuali conseguenze. Abbiamo tanti interrogativi, come quelli che tu giustamente hai posto, ma non abbiamo delle risposte certe, non siamo profeti. Stiamo provando a guardare al futuro in un certo modo ma le istituzioni non stanno facendo molto, non vediamo un grande cambiamento di rotta. 

DMG: Molti stanno spostando parte della propria attività sul web ma vedo solo tanto rumore, creato per persone che utilizzano il digitale in maniera inoffensiva. Questo è un atteggiamento che bisogna evitare in tutti i modi. Bisogna utilizzare il potenziale della rete in maniera offensiva - in senso positivo si intende!
Ma il problema non è il medium, lo strumento, bensì la posizione teorica.  Pensa a quello che sta succedendo in questi giorni: è mai possibile che dopo una settimana di quarantena alcuni “artisti” avevano già pronta l’opera tematica sul COVID-19? Quale posizione teorica avranno questi progettisti di ombrelloni decorativi, posizionati a un metro di distanza l’uno dall’altro?
Le opere d’arte sono delle soluzioni per il mondo nuovo, delle porte sul futuro, sulla valutazione degli eventi attuali, non sono oggetti decorati per ristorarsi dal sole. Quando i Futuristi dissero: «Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo.... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia» stavano inventando il nuovo mondo, un sistema di valori che si sarebbe sviluppato negli anni a venire. L’industrializzazione non avviene da un anno all’altro, non nasce nel 1909 e subito Marinetti scrive il manifesto. Questi processi avvengono all’interno di un flusso. Qualcuno potrebbe dire che l’internet ce l’abbiamo dagli anni ‘70, ma non si trattava propriamente dell’interconnessione che abbiamo oggi, caratterizzata da un determinato utilizzo dell’immagine, della concezione e gestione della privacy, tutte cose che stanno emergendo adesso. Magari scopriremo qualcosa… ma ne parleremo tra un po’!



​Un ringraziamento a Sara Cuono che ha trascritto l’intervista 
e ai preziosi suggerimenti suoi e di Marco Marini.

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